Della lentezza e della velocità. Con delle pause in mezzo.

Il controllo trimestrale, che però è diventato bimestrale e mezzo (giusto per non rilassarsi mai troppo), dice quello che ci aspettavamo, ovvero che c'è un modesto aumento delle lesioni polmonari.
E nient'altro. Almeno sembra*.
Comunque la situazione sembrerebbe la solita, dopo tre mesi di stabilizzazione a seguito di una nuova terapia, i 3 mesi successivi la terapia smette di funzionare e la malattia riprende a camminare. Per fortuna lo fa in modo lento. Ma questo significa che adesso dobbiamo trovare una nuova chemioterapia.
Ho fatto presente a Mr. Clint che sono piuttosto stanca. Per qualche strano miracolo tollero bene le varie chemioterapie che ho fatto in questi 4 anni, ma sono pur sempre 4 anni che con pochissime eccezioni, sono continuativamente sotto chemio ogni settimana e questo mi sta generando una fatica psicologica piuttosto pesante. La sensazione che non ne posso più e che scapperei sottobraccio a Vasco Rossi è sempre più frequente. E poiché io detesto Vasco Rossi, è evidente che c'è qualcosa che non va e che ho diritto a una pausa. Mr. Clint ha capito e mi ha assicurato che mi lascerà respirare un po', trovando una qualche formula soft per farmi recuperare forza e determinazione. Così per il momento ho rimandato ancora il rientro a lavoro. E ho rimandato anche a un futuro molto lontano l'eventuale inserimento di un nuovo port e soprattutto l'operazione di chirurgia estetica per riparare lo sbrego che mi hanno fatto sul petto togliendomi il port infetto. Ho potuto riprendere a farmi una doccia intera solo da due settimane e prima che rientro in sala operatoria per un motivo che non sia assolutamente necessario alla sopravvivenza mi devono correre dietro e pure veloce…

*la tac l'ha letta la mentecatta sottopeso che io disprezzo dal più profondo, ma magari l'ha letta bene. Speriamo. Mr. Clint si fida, fidiamoci anche noi…

La grammatica della sofferenza

Sono settimane che penso che esiste una specie di grammatica della sofferenza, una lingua del dolore. Conoscerla ti consente di muoverti all'interno di una malattia con meno sgomento e meno solitudine. Mi rendo conto che la prima fortuna che ho avuto al momento della diagnosi è stata quella di sapere inquadrare quanto mi succedeva in un quadro riconoscibile e condiviso di esperienza, ovvero: sì, mi sono ammalata, ma la malattia non è una punizione, la malattia fa parte del corso naturale delle cose e della vita, la malattia si può curare, la malattia fa paura, ma non c'è niente di male a prenderla sul ridere, anzi può aiutare ad alleggerire il peso di preoccupazione per se stessi, per chi fa capo alle nostre responsabilità.
Arrivare poi a parlarne in un blog è stato un ulteriore passaggio, ma resto convinta che il primo passo sia stato parlarne, dire a tutti dal primo momento cosa stava succedendo e vedere che qualcuno restava, molti sparivano e altri arrivavano a capire, insieme a noi. I primi giorni mandare tutti quei messaggi è stata una fatica, ma era importante farlo. Lo facevo per gli altri, ma lo facevo per me. Scrivevo le parole della mia nuova realtà. E' stata la cosa più importante da fare in quei giorni.
Parlare, condividere, comunicare, non chiudersi, non sentirsi speciali nella sfortuna, vittime prescelte di un caso crudele, continuare a interessarsi degli altri, sinceramente. Non perdere tempo, saper parlare, saper ascoltare, saper dire no, non voglio ascoltare, quando c'è chi non si rende conto e ti pesa addosso, e tu non puoi e non devi più portare quel peso. Ma sempre cercando di capire, trovando le parole per spiegare a noi stessi e poi agli altri una condizione che appunto speciale non è, ma richiede comportamenti meno comuni, scelte diverse da quelle dei coetanei, e anche una certa tolleranza alla sofferenza fisica, qualcosa che non si sa com'è, ma c'eravamo scordati che è sempre esistita nella realtà di molti.
In questa grammatica della sofferenza, come in ogni lingua che si rispetti, il grosso del messaggio passa attraverso le pause, i silenzi.
In queste pause si ascolta il respiro, di nuovo. Si torna a casa.
In questi giorni è il silenzio del respiro che domina il messaggio, c'è bisogno di pace, di silenzio, di respirare. Ho bisogno di concentrarmi su questo silenzio, e di lasciare andare il resto.

Comincia l'estate

Ora comincia veramente l'estate. Stamattina, anticipando a sorpresa al mio solito, ho fatto la tac trimestrale. L'esito è una situazione di sostanziale stabilità, la malattia è ferma dov'era. Questo significa che potrò mantenere questa chemio per i prossimi tre mesi, che potrò non aver paura per un altro po', che potrò immaginare delle vacanze estive insieme alle bimbe e a Obi tra un'infusione e l'altra. 
Mr.Clint ci ha bonariamente rimproverato perché Obi e io non abbiamo fatto nemmeno un sorriso quando ce l'ha detto, ma io avevo solo un gran groppo in gola per il sollievo. Solo tornata a casa, circondata da Nina e Lilla che giocavano in mutande e canottiera per la casa, mentre ascoltavamo questa, sentendo la vocetta di Nina che cantava il ritornello sotto voce, mi sono uscite due lacrime di calma felicità.
E benché, sempre al solito, io sia adesso totalmente stordita e svuotata, priva di forze, ho ben presente il senso di serenità che piano mi avvolgerà le caviglie, come fanno le onde quando per la prima volta si va al mare e si sente se l'acqua è fredda. Dalle caviglie, per poi salire ed investirmi di benessere, temporaneo è vero, ma meraviglioso. Proprio come il primo bagno al mare.

 

Delle maratone e di altri dettagli

Con Mr. Clint ci siamo fatti una bella chiaccherata oggi. Per fortuna prima di vederci era arrivato anche il famoso dato mancante dell'altro giorno (ah, però, due giorni ci hanno messo stavolta, vedi?) e dunque lo scenario oggi era completo. Mr. Clint lo ha valutato insieme alla dott.ssa di Milano e io cercherò di riassumervelo così:
– il mio tumore è leggermente cambiato, appena appena, ma appena un po' sì e bisognerà tenerne conto;
– i farmaci a mia disposizione con questa situazione restano però gli stessi, sono sempre pochi e anzi di meno, per cui dobbiamo fare della mia cura un piatto di cucina povera, ovvero, utilizzando quello che c'è;
– quello che c'è è una combinazione di un farmaco a cui ho sempre reagito bene, con un farmaco nuovo che il mio tumore non conosce ancora;
– perderò nuovamente i capelli, ovvero tra un mese al massimo sarò di nuovo glabra e un po' più gonfia per il cortisone, la solita gnocca insomma;
– la "nuova" combinazione chemioterapica comincerà venerdì prossimo;
– prima di cominciare la chemio ho bisogno di fare alcuni esami del sangue e anche una tac per capire se in questi due mesi mi sono beccata altre rogne;
– qui vi voglio in piedi in standing ovation per il coraggio che mi c'è voluto: ho chiesto a Mr. Clint se non sia il caso di mettermi sto benedetto port, e lui che era sempre stato contrario, mi ha detto stavolta di sì. siete in piedi? si? ecco, perché per quanto questa cosa serva comunque a me e a salvare le mie vene, non avete idea di quanto io sia codarda e quanto coraggio ci abbia messo a tirare fuori la domanda;
– ho colto l'occasione per fare qualche altra domanda generale a Mr. Clint sull'idea che si è fatto del mio tumore e per quanto la sua risposta non sia motivo di rilassamento e svacco generale, mi ha confortato l'idea di poter considerare l'andamento della mia malattia più vicino a quello che ci vuole per una maratona che non a una gara di velocità. Meglio. Sono sempre stata una pippa in tutte le gare di atletica da ragazza, ma è sulla velocità che ho subito le peggiori umiliazioni.

Conclusioni: sono molto contenta di ritornare a curarmi, come ogni volta, lo ripeto, la fase di definizione della cura è sfinente, molto più che subire ogni tipo di vessazione chimica. Sono contenta di conoscere una parte di farmaco che andrò a fare. Sono contenta di perdere i capelli, perché mi consentirà di parlare alle bambine, come avevo comunque voglia di fare, mettendo davanti a loro un elemento concreto per capire la situazione generale. Sono contenta di rifare una tac, non ero per niente tranquilla a far passare altri mesi senza sapere cosa succede qua dentro. Sono contenta che stiano per cominciare tre mesi in cui so esattamente cosa devo fare.
Ma soprattutto sono contenta di avere davanti due giorni in cui posso liberare la testa da ogni pensiero e posso sentirmi autorizzata a ogni tipo di vandalico shopping terapeutico, aperitivo alcolico, sfrenato utilizzo del giardino e delle mie bimbe. E quando hai davanti due giorni così, con questa primavera profumata che ti circonda, i tre mesi che verranno dopo, verranno dopo e basta.

Com'è andata ieri

Ieri è andata così.
Premessa: i risultati di una biopsia ci mettono 7-15 giorni ad arrivare, massimo 20. Io sono stata buona fino all’altro ieri. Ieri – 20° giorno – ho cominciato a telefonare al reparto dalle 9 di mattina ogni 2 minuti per riuscire a parlare con qualcuno. Ci sono riuscita intorno alle 13. Alle 13 mi dicono: ancora niente. Chiedo spiegazioni. Si correggono, sì i risultati sono arrivati. Possono inviarmeli via fax ma io non ho un fax per cui cerco un fax li richiamo e gli do il numero. Non me lo mandano e il fax chiude per il pranzo. Decidiamo di imbarcarci con Obi e andarceli a prendere all’ospedale in culonia dove mi hanno fatto la biopsia. Arriviamo. Obi resta giù, io salgo. C’è un dottorino che mi dice: ma io le ho fatto il fax! Si, ma troppo tardi. Mi fa vedere il referto. Io ho una botta di lucidità e nel nervoso che dalla mattina mi è montato alle cervella, decido comunque di prendermela calma. Guardo il referto, per favore, guardiamolo insieme dottorino. Cosa significa questo? Lui impallidisce, deve informarmi che ho il cancro. Guarda che lo so che ho il cancro. Se l’era vista bruttissima, poveraccio. E’ gentile, minuscolo, ma gentile, è quello che mi ha tolto il drenaggio con grande accuratezza. Ma è minuscolo. Mi spiega i risultati, mi sembra di capire che ci sia una piccola minuscola variazione. Ma manca un dato. Gli chiedo perché manca questo dato? Forse gli altri escludono questo? No, non è possibile. E’ che va richiesto apposta. Appunto. Il dottorino impallidisce di nuovo. Con me alle calcagna gira per il reparto alla ricerca di un responsabile, che non trova. E’ la sua giornata no. Figurati la mia. Gli chiedo di capire perché manca quel dato. Il poveretto, eroico, si incammina verso il laboratorio (parliamo di edifici distanti) e mi lascia ad aspettare indovinate dove? Davanti a una tv che trasmette cosa? Indovinato. Provo a spegnerla. Non è possibile. Dopo 40 minuti il dottorino torna sudato per la corsa che si è fatto e mi balbetta mortificato che non era stata fatta la richiesta per quel dato. Da chi non è stata fatta? Da chi ha firmato la cartella. Chi è? Non c’è. Perché non l’ha fatta? Deve essersi sbagliato. Intanto Obi è salito a darmi coraggio e insieme andiamo da un suo ex collega che lavora nello stesso ospedale e che fa al telefono quello che il dottorino ha dovuto fare a piedi. Il risultato è lo stesso. Il dato manca, lo dovranno rielaborare (altre 2 settimane?) , ma riesce ad ottenere i risultati dettagliati con le percentuali di mutazione. Sono percentuali risibili. Minime. Inutili. A questo punto io sono talmente addolorata e arrabbiata che non riesco nemmeno a gridare. Ho fatto direttamente un salto nello stato di furia vendicatrice. Decidiamo con Obi di andare al mio ospedale dal bravo vecchio Mr.Clint a portargli questo mozzicone di risultati. E’ sempre meglio di niente, soprattutto considerato che sono 2 mesi 2 che sono senza terapie e non mi era mai capitato, e non lo dico, ma sono giorni che sono molto, molto preoccupata. Andiamo da Mr.Clint e a me mi viene da piangere per il sollievo di riconoscere l’ospedale che è una mia seconda casa, dove le tv ci sono, ma sono sempre spente e le infermiere mi chiedono come sto, e senza ironia, si aspettano che dica bene, perché è bene vedersi. Spiego la situazione a Mr.Clint e lui con la sua calma la raccoglie e decide, sentiamo Milano, vediamo se queste minime percentuali servono a qualcosa oppure no, e poi partiamo con qualche terapia, basta stare fermi. Si fotocopia le mie carte e andando via mi stringe un braccio e mi sorride. Di nuovo mi viene da piangere per il sollievo. Comunque andrà, non sarò di nuovo in balia del caso. Poi entro in macchina e con Obi ci fermiamo a masticare un pezzo di pizza e poi ci fermiamo in macchina per due ore. Mia madre è andata a prendere le nane, noi non siamo in grado. Per due ore restiamo in macchina come su una barca ferma in mezzo alla tempesta. Ci siamo presi il nostro tempo. Ma di questo non ne parlo. E’ nostro. Infine torniamo a casa, mi faccio una doccia per togliermi il dolore di dosso, ma non va via. Poi usciamo per una lezione di meditazione. Non è che ne abbia voglia, ma almeno non dobbiamo occuparci noi delle bambine, ci pensa la babysitter. La giornata finisce in macchina di nuovo, dopo la lezione, a mangiare un altro pezzetto di pizza. Solo che il barbone ubriaco di turno ci prende di mira, e ci comincia a prendere in giro da fuori, finendo per smontarci l’antenna dell’auto che infila nel tergicristallo. Ovviamente è innocuo, e rispetto alla giornata che abbiamo avuto, è un accanimento ridicolo. Ma, diciamocelo, ci sono state giornate migliori. Decisamente migliori.

8 giorni 8

8 giorni di ospedale non sono niente, è vero.
Ma sono un buon assaggio.
Perché chiaramente non potevo limitarmi a farmi piantare una siringa di 40cm40 nella schiena, senza beccarmi anche lo pneumotorace d'ordinanza e il conseguente drenaggio.
Ma oggi è primavera e adesso sono a appena entrata a casa e nella testa non ho niente se non le testoline delle mie bimbe e la voglia di stringermele per 4 ore di seguito. Non le avevo mai lasciate per così tanto tempo…
I risultati arriveranno poi. E anche i piccanti resoconti della mia vigliacca degenza, non temete.
Ieri questo blog compiva due anni e continuo a essere sorpresa e grata di quanto mi aiuti, di quanto il vostro passaggio abbia importanza per me. E dunque poiché un blog compleanno è anche di tutti quelli che sono passati almeno una volta di qua, tantissimi auguri e grazie a tutti voi.
E buona primavera di sole in questi giorni difficili.

Sintesi

Faccio una breve sintesi del mio incontro con Mr. Clint TAC alla mano:
– le mie metastasi polmonari, nell'ultimo anno di chemioterapia continuativa, sono lentamente, ma inesorabilmente, raddoppiate;
– il fatto che adesso siano delle salsicette cancerose grosse il doppio di un anno fa, rende possibile fare una bella biopsia polmonare, o un bel BAL, per prenderne un pezzetto e capire se sto cancro che mi sono beccata sia mutato, visto che i farmaci li ho finiti tutti;
– una biopsia o un BAL non sono proprio delle cose simpaticissime da fare, e questo significa che il mio grado di nervosismo e di franco terrore è aumentato di parecchio nelle ultime ore;
– non aiuta la consapevolezza di aver passato un anno intero a ciucciarsi una infusione di chemioterapia a settimana, senza che sia servito a una emerita cippa (oh, certo, potrei essere morta se non avessi fatto chemioterapia SEMPRE da 3 anni, grazie di avermelo fatto notare, mi fa sentire molto meglio).
Questo in sintesi il quadro della situazione.
Tutto si fa ed essere pronti è tutto.
E noi siamo qui.

Il giorno più corto che ci sia

Dicembre è il mese dei ricordi da sempre. Alcuni belli e lontani e dolorosi, altri felici, lontani e vicini e divertenti. E ultimamente, anche quelli legati all'inizio delle mie vicende cancerose con cui ho deciso di allietarvi qui.
Il 13 dicembre di tre anni fa ho vinto la prima TAC, quella che mi informava in modo inequivocabile che il mio cancro era lì per restare, insinuato diffusamente tra i rami incomprensibili dei miei polmoni. 
Ma sapete cosa mi ricordo, in maniera nitida e potente, di quel giorno? Ricordo di aver guardato il petto della mia piccola Lilla quindicimesenne,  in quel pomeriggio in cui cominciavo a fare i conti con il restringimento del mio futuro. E di aver capito che c'era qualcosa che non andava nel modo in cui respirava. Ricordo che appena rientrato Obi, mi fiondai dal pediatra (uomo di rarissima bontà e integrità) insieme a Lilla. Lui la visitò, mi chiese come stavo, lui che pochi anni prima, a Natale aveva avuto un infarto perché è troppo buono e lavora troppo, e io gli risposi con un sorriso ironico spiegandogli come stavano le cose velocemente. Lui raccolse le informazioni con il suo sorriso buono, poi si complimentò con me per aver portato subito la mia nanina che in effetti aveva bisogno di cure. Ecco, in sala d'aspetto, prima che la visitasse, Lilla e io ci siamo fatte due fotografie bellissime in cui ci stringiamo forte e sembriamo due bambine felici, strette strette.
Ed è questo quello che ricordo soprattutto di quel 13 dicembre, perché poteva essere il primo di tanti giorni, uno più corto dell'altro, e invece è stato solo un giorno di tre anni fa, che è passato e al quale ne sono seguiti tantissimi, alcuni lunghi, altri corti.
E, sempre con le mie nanine strette strette, non c'è mai stato il rischio che perdessi la via.

Il giorno prima

Tre anni fa, oggi, è il giorno prima: ho 34 anni, una bimba di 15 mesi e una di 3 anni e i risultati della dieta ideologica post gravidanza – la fase in cui torni a prenderti cura di te – cominciano finalmente a farsi vedere. Ho certamente delle aspirazioni, modeste, niente di che, ma non ne ricordo nessuna.
Tre anni fa, domani, la mia vita vira altrove.
Il giorno prima è passato e non c'è più.
Il giorno dopo è il 5 dicembre 2007 quando scopro, piano, di essermi ammalata seriamente.
Il giorno prima è passato.
Il giorno dopo è tutto il futuro che ho.
Ma devo dire che oggi è stata una buona giornata.
E, visto sono fortunata, lo sarà probabilmente anche domani.

Come una funambola

Traccheggiavo, io.
Facevo finta di niente.
Lo avevo ricevuto in mano dall'autrice, con tanto di dedica personalizzata, ma me lo tenevo lì, per dopo.
Per un altro momento.
Per più avanti.
Poi, in questi giorni di intensissima fatica mentale, di ferreo contenimento emotivo, mi ci sono rifugiata dentro, trovando il porto sicuro della comprensione, così come è stato due anni fa quando sono capitata sul suo blog.
Leggendolo ho capito perché non volevo farlo e perché è così bello.
La verità è che non volevo leggerlo questo suo libro, perché vorrei che Giorgia non fosse mai stata malata, e perché voglio che non lo sia mai più. Perché mi viene da piangere ogni volta che riconosco le sofferenze, gli abbattimenti e gli sforzi che ci vogliono ad alzare la testa, nella malattia e nel superamento della malattia. Sono quelli che affronto ogni giorno da tre anni. Ma non sopporto che lo debbano vivere, o che lo abbiano vissuto, quelli a cui voglio bene. Sono egoista. Voglio sta cazzo di malattia tutta per me, che ci volete fare.
Ma Come una funambola è bellissimo, ha quella bellezza discreta della verità e della vita che è fatta di inciampi, di mattine luminose, di capelli che cadono e che ricrescono, di amici che spariscono e di gatte che ci sostengono.
E' bello perché racconta con il semplice scorrere delle pagine che, se non hai paura di avere paura, la vita è un viaggio molto interessante, pieno di persone amabili, pieno di fatiche nobili, di incredibili fortune, e insondabili tristezze. Anche se hai avuto il cancro. Anche se ti è tornato. Anche se devi fare di tutto per non fartelo tornare.
E racconta – e non so in quanti finora lo abbiano saputo fare così bene – che accanto alla chemioterapia, accanto a tutti gli esami diagnostici del caso, quello di cui è fatta la guarigione profonda è l'impegno, a volte per niente facile, di mantenere aperto, vivo, anche polemicamente, il dialogo con il proprio medico, l'impegno a credere che bere l'aloe tutte le mattine può aiutarti (ed è vero che ti aiuta)  e che imparare i passi dell'anatra selvatica non solo non può farti male, ma probabilmente ti aiuterà a rimettere in circolo tutto quello che di buono hai sotto le tue di ali naturali.
Ecco, le ali naturali di Giorgia sono molto grandi, e si dispiegano con forza lungo tutto questo bel libro, tanto che alla fine, ti tirano su con loro.
E, benché in equilibrio precario, da lassù si sta molto meglio, datemi retta. Leggetelo.