Tabù nr. 2 – versione lunga

Il cancro è il Voldemort delle malattie. Meno si nomina e meglio si pensa di evitarlo. Come nel caso di potteriana derivazione, anche questa è una cazzata. Ce lo siamo detto già altrove. Ci abbiamo aperto un portale apposta chiamato così. Ma il motivo di tanta paura è che legata alla parola cancro c’è la parola morte.
E, nella nostra cultura, non si muore.
Morire è peccato.
Morire è essere sconfitti.
Morire è vergognoso.
Abbiamo tutti paura di morire, ma guai a dirlo. Lo fai solo se stai lì lì. Altrimenti, non si sa mai, portasse sfiga.
Ma è vero, di cancro si muore. Eh già. E adesso vi parlo di questo.
Diciamocelo subito, una diagnosi di cancro non si sottrae mai a una riflessione sulla fragilità della vita e sulla sua sorte. Alcune diagnosi più di altre. Tipo la mia. Tuttavia, grazie alle mie figlie, la vita mi ha reclamato dal primo momento della diagnosi. E benché abbia capito dal primo momento cosa avevo davanti e le conseguenze che questo avrebbe potuto avere in primo luogo proprio per le mie figlie, ho capito subito che morire non mi spaventava. Mi spaventa il dolore, la perdita di dignità che accompagna il dolore fisico. Come tutti – e lo avete visto anche qua – sono spaventata dalla sofferenza e dal dolore, ma non temo di finire all’inferno col culo bruciato da un ipotetico sadico angelo nero. Morirò, come tutti, e la mia esistenza si dissolverà lasciando, spero, luminescenti ricordi. Forse da quando mi sono ammalata ci penso di più, è vero. Ma non sono pensieri cupi. O non sempre. Spesso, più che altro, è come se preparassi meglio la mia anima alla convivenza con la consapevolezza della fine. E questo è un esercizio salutare. Che mi allarga il cuore, non me lo stringe di paura. Anzi. Perché a meno di grandi rivolgimenti, la mia prognosi va da due a un massimo – eccezionale – di 15 anni di sopravvivenza dalla diagnosi. Ho ben chiari i confini della mia condizione e sono pronta a esplorarne i limiti ed eventualmente a superarli se la scienza me lo consentirà. Ma non posso fare finta di non aver letto queste statistiche. Questo in qualche modo significa che il pensiero della morte mi è spesso vicino. Non come uno spauracchio, non come un mostro pauroso. Semplicemente ci penso. Penso che vorrei dimagrire, penso che devo comprare a Nina uno zaino più leggero. Penso che Lilla dovrebbe fare nuoto. Penso che sarebbe figo andarsene in California quest’estate. Penso alla morte, e mi chiedo se è meglio morire quando le mie bimbe sono piccole così mi dimenticano prima. Poi penso al mio nuovo lavoro, alla nuova mostra.  Mi ricordo che devo farmi fare il certificato per il lavoro, e che manca il latte. Poi penso che la vita è di chi resta e che non posso tenere tutto, tantomeno il futuro di chi amo, sotto controllo. Penso a cosa cucinare questa sera, e a fare qualcosa di carino nel weekend. E magari di farci scappare anche un po’ di romanticismo con Obi. Oppure non penso a niente e mi godo la vita che faccio proprio in questo momento. Proprio adesso.
Ma, attenzione, se questa cosa la dico ad alta voce intorno a me si fa il vuoto o peggio.  Perché, per carità, nessuno muore. Tanto più se hai il cancro. Che sei matto?! Vai a parlare di corda a casa dell’impiccato?  E se lo fai tu, no, proprio non puoi farlo, meglio non aprire bocca su questo (e i suoi allegri derivati). Perché se lo fai, vuol dire che “non pensi positivo”, “ti stai buttando giù” “certo non puoi pensare di guarire, se pensi a morire” e tutta questa marea di frasi fatte che le persone utilizzano con noi perché semplicemente hanno una paura fottuta di morire. Loro. Non io. Perché io lo so che morirò e probabilmente di cancro. E fino ad allora non ho intenzione di soffrire più di tanto, ma neanche di fare finta che vivrò fino a 150 anni e che diventerò sempre più gnocca nel frattempo. Ma, sia chiaro, non ho intenzione di risparmiarmi nulla che possa servire a curarmi ed, eventualmente, a guarirmi. E ho intenzione di vivere felice, mica triste perché ho una grave malattia.
Ma hanno tutti una paura tremenda. Le persone che ci sono più vicine non toccano questo argomento, e non solo non lo toccano direttamente, ma se solo solo cerchiamo di spiegare quanto è difficile vivere questa naturale precarietà dell’anima, si allontanano spaventate. O spariscono. O ci trattano male.
Meglio così.
Penso che, tutto sommato, questo tabù stia bene dove sta. Non è (ancora) il momento di occuparmi delle derive pratiche e organizzative di una mia eventuale dipartita. Va bene così.
Ma penso che sia una grave limitazione della nostra cultura, in generale, aborrire la morte come il nemico più grande. Ignorando che essa, con la vita, è parte di una stessa onda.
Ed è sconfortante sapere che, quando ci sono i giorni neri, non abbiamo nessuno Obi e io, nessuno se non l’un l’altra, da guardare con la consapevolezza della nostra situazione, della nostra condizione.
Perché gli altri non ci stanno ad affrontare questo guado insieme a noi. Nessuno è abbastanza coraggioso, ahimé.
Per fortuna noi due si.

 

Chiarezza

Sto infilando, uno dopo l'altro, dei post nient'affatto divertenti e mi dispiace, ma tant'è.
Ho appena finito di leggere un articolo su Internazionale della scorsa settimana nella sezione Scienza preso dal New Yorker, di Atul Gawande e non vi cito il titolo sennò vi deprimete subito. Diciamo che affronta una questione molto molto difficile per chi è malato e devo dire che lo fa generando obiezioni e osservazioni che credo sia utile fare per tempo. Ma magari non andatevelo a leggere prima del finesettimana.
Ad ogni modo, la prima cosa a cui mi ha fatto pensare è la gratitudine verso Mr. Clint.
Come praticamente tutti (l'ho scoperto in seguito) io sono arrivata alla diagnosi in maniera piuttosto confusa. Benché avessi a disposizione veramente ogni tipo di risorsa (Obi all'epoca lavorava nell'ospedale dove sono stata presa in cura), forse proprio l'eccesso di zelo ha fatto un gran casino. E mi ricordo che erano in almeno 8 i medici il giorno che mi hanno dovuto comunicare il tipo di situazione in cui mi trovavo.
Nessuno di questi usò la parola cancro.
Tutti usavano la parola neoplasia.
Cazzo è la neoplasia???
Avevo capito che era roba seria, ma non appena usciti dall'ospedale, camminando storditi per strada, ho chiesto a Obi: "Ho il cancro, vero?"
Perché mica ero poi così sicura, cazzo, neoplasia, voi lo sapevate? Insomma, meglio sfatare ogni dubbio da subito.
Tra quegli 8 medici, per diversi motivi, non fu Mr. Clint a spiegarmi la mia situazione, ma un chirurgo. Brava persona, però un tantino sopra le righe, se capite quello che voglio dire.
Poco prima di cominciare la chemio, ma poco dopo quella giornata di diagnosi, ebbi invece modo di sedermi davanti a Mr.Clint e di parlare con lui. Non sapevo che sarebbe stata una discussione importante e andai da sola. Mi dispiace ancora oggi perché penso sarebbe stato molto importante che accanto a me ci fosse Obi e, in qualche modo, forse, anche mia madre.
Ebbeno Mr. Clint fu molto chiaro, per niente emotivo, per niente freddo, mi spiegò che – con i farmaci ora a disposizione – il tumore che avevo non poteva guarire, essendosi esteso ai polmoni, ma poteva essere curato con terapie che mi avrebbero garantito una buona qualità della vita, anche molto molto a lungo. Molto a lungo mi piacque molto. Mi piacque molto anche buona qualità della vita, avevo una bambina di un anno e una di 3, buona qualità della vita era fondamentale.
Ad ogni modo, questa cosa che mi disse Mr. Clint io poi ci ho messo tanto tempo a capirla in tutta la sua sostanza. Ma penso sia la cosa di cui sono maggiormente grata in tutto il mio percorso medico, dopo l'ecografista libanese che per primo ha visto il tumore. Ogni tre mesi, è quella conversazione che ci ripetiamo, con Obi, con Mr. Clint, con mia madre che se la scorda ripetutamente, con me stessa quando è necessario. E se ho parlato di guarigione poco fa, non è che sia perché mi sono scordata che per me, dal punto di vista medico, non è al momento possibile, ma perché sto provando ad estendere il concetto di guarigione oltre il limite della medicina.
In seguito, quando, per le pratiche di invalidità, qualche stronzo dipendende zelante mi mise il dubbio che, tutto sommato, il mio sussidio non sarebbe durato tanto, tornai da Mr. Clint e con estrema chiarezza gli chiesi: "C'è qualche domanda che le devo fare? C'è qualcosa che mi deve dire? Hanno ragione a dirmi che non ho così tanto tempo davanti? Posso essere sicura che, se e quando, la mia situazione cambierà sarò la prima a saperlo e a prepararmi?". E non è stato facile fare quelle domande, credetemi. Mr. Clint si fece una amara risata alle spalle dei dipendenti dell'invalidità e mi ripetè quello che sapevo: e cioè continuità della terapia e buona qualità della vita. Anche molto molto a lungo. E che sì, quando e se la mia situazione fosse cambiata, lo avrei saputo per tempo.
Ecco.
La chiarezza è una cosa importantissima per me.
Meglio cancro che neoplasia.
Meglio la verità, sempre.

Mr C. & me

Mr C. è entrato nella mia vita per caso, credo. Improvvisamente era lì e reclamava tutta la mia attenzione, il mio tempo e i miei progetti. Sono quasi tre anni che viviamo insieme, e tutta la famiglia si è dovuta abituare a lui, ai suoi sbalzi di umore, al suo comportamento disturbato, alla sua andatura lenta che ci consente ogni tanto di riprendere fiato.
Mr C. è entrato anche nel mio letto e per quanto Obi vorrebbe dargli un paio di cazzotti, invece deve tollerare questo triangolo che non ha niente di piccante, ahimé. Ma tant’è.
Mr C. ed io siamo confidenti, camminiamo insieme anche se non pensavo di aver bisogno di compagnia per la mia strada, ma quando un compagno ci chiede di viaggiare insieme, non si può cacciare via. Al massimo infilo le cuffiette e lascio che lui chiaccheri per conto suo e metta d’accordo le sue varie personalità, io ho già le mie di cui occuparmi.
In vacanza Mr C. tiene un basso profilo che apprezziamo tutti. Anzi, forse grazie a lui le vacanze e i momenti importanti sono ancora più belli. Vedete, è un simpaticone in fondo, ci ricorda quanto è bello stare insieme. Nelle foto non viene nitido, ma c’è sempre: e sorride, lo stronzetto.
Ma noi sorridiamo di più.
Per il momento abbiamo stabilito che vivremo insieme a lungo. Ci stiamo abituando l’uno all’altra e per quanto debba chinarmi a raccogliere i suoi calzini lasciati in giro più spesso di quanto non vorrei, ho la fortuna di non soffire di mal di schiena. Mi chino ogni volta che serve. Porto ogni peso che devo. E, tutto sommato, è grazie a Mr C. che ho potuto sottrarmi alla "carriera" per dedicarmi a tempo pieno alle cose più importanti. A volte ci litighiamo il futuro delle mie figlie, ma molto più spesso viviamo in una tregua amicale. Non ama molto i miei tagli di capelli e a me fanno schifo i suoi, ma poteva andare peggio. Poteva farmi crescere i baffi, chessò.
A volte conversiamo con Mr. C. di cose profonde in un modo che mi piace. Parlare con lui mi aiuta a pensare meglio, con meno sprechi, e se non fosse stato per lui, diciamocelo, non vi avrei conosciuto.

Non ci molliamo mai.
A volte ci prendiamo per mano e guardiamo lontano.
A volte ci guardiamo negli occhi e abbiamo paura.
Molto più spesso ci guardiamo negli occhi e rimane sempre sorpreso perché quando guarda nei miei non c’è spavento.
Pensava davvero che gli eroi fossero tutti "giovani e belli" e invece no. Sono fatti proprio come me, come noi.
E noi, caro Mr C., non molliamo la strada tanto facilmente.

 direttamente ispirato

da questo splendido post

stasera

Internet è una forza, negli ultimi giorni ne ho avuto una prova in più. Ma internet ha anche un sacco di difetti. O forse i difetti ce li abbiamo noi e non possono che riversarsi sull’uso che facciamo della rete, dei declamati social network.
Ho conosciuto Lara solo virtualmente. Per qualche mese ci siamo scritte mail, abbiamo chattato su fb, come può succedere solo tra estranei, ci siamo dette delle cose che non abbiamo detto a nessun altro con altrettanta franchezza. Ma a noi faceva bene parlare sapendo che l’altra non si sarebbe spaventata, che l’altra capiva senza pietà pelosa, senza ipocrita ottimismo.
Poi per Lara la malattia è precipitata e benché mi fossi ripromessa di esserle vicino con almeno un sms ogni tanto, invece poi non l’ho fatto. Poi piano piano ho scordato di farlo. Perché per me la vita continuava, a differenza che per Lara.
E oggi mi sono ricordata di controllare come stava, prima su fb. Poi, dopo aver letto i messaggi inequivocabili dei suoi studenti, ho trovato su google un articoletto. Non voglio parlare qua della mia vergogna per non esserci stata quando avrei dovuto, queste sono cose che mi devo vedere con la mia coscienza e basta.
E non posso parlare di Lara perché non ho avuto la fortua di conoscerla meglio. Ma so che aveva sognato un viaggio a Madrid e che l’aveva fatto chiedendomi consiglio perché io c’ero stata poco tempo prima. Anche quel viaggio Lara non se l’è potuto godere come avrebbe meritato.
E allora a me è venuta in mente questo viaggio da Madrid a Barcellona. Questa canzone.
E stasera la dedico a Lara, a suo marito, e a chi ha avuto la fortuna di amarla.

Tre giorni

Fra tre giorni farò i controlli veri. Lo dicevo che sono una tipa fortunata e che me li anticipano sempre.
Sono molto curiosa, è ovvio, forse anche più del solito. Anche se la migliore delle ipotesi è sempre quella che è, ma questo non so in quanti siamo in grado di capirlo, e meglio così.
Ma soprattutto ho una voglia spaventosa di godermi questi tre giorni che mancano. Certo, Obi ha da lavorare, ovvio. E domani pioverà, chiaro. E lunedì sarà comunque lunedì. Ma se ci riesco, io preferisco godermi questi tre giorni a modo mio, preferibilmente passandone una buona metà sbronza. Se non di fatto, quanto meno d’intenti.
E poi leggendo. Parlando poco. Il solito insomma. Anche qui, se non mi vedete, non vi preoccupate. Perché mancano tre giorni, che è come dire, tre mesi.
Esattamente come al solito da due anni e mezzo a questa parte.
E adesso scusate, vado a stapparmi il prosecco.

Una premessa, un fatto lontano, una cosa buona recente

Premessa
Dopo la diagnosi, moltissime persone che mi conoscevano e che erano al corrente della situazione (allora lavoravo ed avevo una vita sociale più ampia) si precipitarono a fare controlli su controlli per essere certi di non incappare nella mia stessa sfiga. La maggior parte non me ne parlava, ma io lo intuivo. C’era invece una percentuale di persone che inspiegabilmente correva da me a dirmi trafelata "Allora, sto bene, eh?! Ho fatto tutti gli esami, e non ho niente, eh?!". Era una cosa che ovviamente mi riempiva di sollievo, ma che allo stesso tempo trovavo strana, più che altro nel modo di venirmelo a comunicare. Ma non aveva importanza, la cosa importante era che stessero bene. Anche mio fratello fece la stessa cosa e io fui soprattutto molto contenta che avesse preso sul serio il rischio e che lui almeno non ne correva. Mia madre invece non capiva che il concetto di familiarità potesse estendersi in qualche modo anche all’inverso e dunque non solo come discendenza da lei a me, insomma che anche lei avrebbe dovuto controllarsi più spesso, perché il mio tumore poteva essere segno di una tendenza famigliare a sviluppare la patologia. Lo stesso dicasi per mia sorella che tra l’altro era sempre stata sotto controllo a tiroide e seno per valori ritenuti appunti “da osservazione”.
Il fatto
Una sera di luglio di due anni fa, dopo aver finito i primi 6 mesi di chemio e dopo i primi controlli che purtroppo non davano buone notizie, mia sorella mi chiamò per dirmi che doveva assolutamente fare una scintigrafia, perché sia al seno che alla tiroide c’era qualcosa che non andava. Era la sera della mia tac, e mentre io tentavo di tirar su Obi e mia cognata con una cena finto spensierata in giardino, lei mi chiese se potevo aiutarla a trovare un posto dove fare la scintigrafia. Ovviamente entrai nel panico più totale. Ci mancava anche mia sorella. Provai a spiegare ad Obi il mio sconcerto e la mia paura, ma lui e mia cognata erano piuttosto raggelati nel vedere che mia sorella si rivolgeva a me, fra tutti, per avere un consiglio. Per inciso, mia sorella ha 9 anni più di me, ma io pensavo che fosse la cosa più normale che chiedesse proprio a me. Ero tristemente orgogliosa di poterle dare una mano.
Dopo i primi controlli alla tiroide, dove per  fortuna non risultava niente di preoccupante, toccava a quelli al seno. Io non ero a Roma e la chiamai, sarei tornata nel giro di due giorni per la mia mastectomia, o così credevo, prima che i medici decidessero che la mia situazione era troppo precaria per rischiare l’operazione. Ma al momento della telefonata non lo sapevo.
Questa fu la nostra conversazione.
“Sei più tranquilla adesso?" e lei, testuale: "Mah, sai, mi spaventa molto di più il controllo al seno mercoledì. Perché la tiroide, sai, si toglie"
E io ridendo amaramente: "beh, anche il seno".
E lei "No, ma sai, mi spiegava Cinzia (sua cognata, medico di base) che ci sono tumori che si possono diffondere e altri che no, e il seno è tra quelli che si possono diffondere"
Non credevo alle mie orecchie. Non ci credevo al punto che risposi: "beh, si, è la differenza tra maligno e benigno in sostanza…"
Dopo qualche altra chiacchera, attaccai il telefono e rimasi un po’ in silenzio. Dopo qualche minuto sentii montarmi dentro una rabbia inaudita. Com’era mai possibile che mia sorella si rivolgesse così a me. Cosa pensasse che stessi facendo secondo lei io, giocando a briscola? un torneo di bocce? solo perché avevo fatto già sei mesi di chemio senza il cazzo di aiuto di nessuno tranne le nostre mamme, e senza vomitare ogni giorno (ma con la diarrea continua, la spossatezza, la bocca infiammata, le febbri altissime…) e continuando a lavorare fottutamente ogni giorno, solo per questo allora forse mi meritavo di sentirmi dire quello che mi aveva appena detto? come se fossi una commessa al supermercato di cui si parla del più e del meno? come se quello che stavo passando non contasse? come se, anche andando incontro alla morte, comunque gli altri ne sapessero più di me?
Nei giorni seguenti, poi, nonostante quella telefonata mi avesse veramente sconvolto, mi offrii di accompagnarla agli esami al seno che doveva fare, ma lei preferì andare da sola. Il giorno della sua ecografia, la chiamai ripetutamente, e quando alla fine mi rispose, mi disse, come se avesse scordato il motivo della mia preoccupazione: “Ah, ma sai, alla fine non l’ho fatto il controllo” e io allibita, “Ma come?????”
“Ma si, mentre aspettavo, ho incontrato un medico che mi ha detto che non ce n’era bisogno, che potevo tornare tra sei mesi, e poi a me non mi piace frequentare gli ospedali, lo sai”.
A quel punto decisi che se lei non si sentiva responsabile verso i suoi due figli, allora non potevo farlo io. Se lei riteneva che nella sua situazione, poteva saltare un controllo, non erano problemi miei. Se lei che è adulta, e in teoria più di me, non sapeva quanto torto stava facendo a me, alla mia esperienza e alla mia vita, nonché a se stessa, io non potevo e soprattutto, non volevo, intervenire.
Questo episodio e quella telefonata sono tra i pensieri neri che si ripresentano puntuali ogni pomeriggio post chemio, a distanza di due anni. Qualcosa che pagherei per scordare e che invece continua a ferirmi. Anche se so che mia sorella, a modo suo, mi vuole bene e se potesse, farebbe qualunque cosa per evitarmi quello che sto passando.
Una cosa buona
Ad ogni modo, oggi per un attimo mi sono ripetuta queste stessa filosofia di “non intervento” applicandola ad un’altra situazione. Ma non ce l’ho fatta, mi sono mandata a quel paese e l’ho negata. Ed è successa una cosa piccola che mi ha fatto piacere, che mi ha fatto bene. Uno scambio prezioso che non descrivo perché coinvolge qualcun altro e non mi va di renderlo pubblico. Ma insomma, mi ha proprio messo un sorriso buono nel cuore e ne sono uscita sollevata e contenta.
Mi ha anche fatto capire che tanti più scambi così buoni e positivi riuscirò ad avere, tanto più, piano piano, quel ricordo nero che mi ha causato mia sorella, prima o poi sparirà dai miei cupi pomeriggi post chemio. E anche in questo caso, la scrittura, questo posto, la non chiusura, sono assolutamente fondamentali, sempre sicuramente, ma tanto più in una situazione come la mia.

Che poi…

…non è che non mi costi fatica adeguare le aspettative che ho su me stessa e sul mio futuro.
non è che non mi costi un’operazione mentale ed emotiva complessa guardarmi allo specchio e accettare  la mia vita per quella che è.
e quando tua figlia di 5 anni comincia a trattarti male e a cantarti una canzone inventata in cui tu sei l’eroe negativo perché, parole sue, sei brutta, pelata e impazzita, lo so che è infantile e lo so che è una bambina e lo so perché lo fa, ma mi sento morire dentro.
Mi fa sentire veramente impotente ed infinitamente triste.

Conversazioni scolastiche

Non so se a voi capita, ma io mi ficco in testa qualcosa e posso andare avanti per mesi a immaginare come andrà.
Sarà un anno che ho deciso che quest’anno avrei parlato con la direttrice della scuola di Nina e Lilla (direttrice anche della futura scuola elementare di entrambe, sempre che non ci trasferiamo), e sarà un anno che ogni tanto immagino questa conversazione con un misto di ansia e di angoscia.
Il motivo per cui voglio parlarle sta nel fatto che voglio che la scuola conosca la situazione della famiglia di Nina, nello specifico, la situazione della mia malattia. Le insegnanti della scuola materna ne sono ovviamente già a conoscenza e proprio la settimana scorsa le ho dovute avvertire che a breve, pelata, potrei riscuotere un certo "interesse" da parte dei compagnucci delle mie figlie, che fossero pronte. E certo, non credete, mi pesa tanto andarlo a dire in giro, come immagino a chiunque nella mia situazione, ma allo stesso tempo, è importante che siano a conoscenza di una cosa che può influire tanto sul comportamento delle mie figlie e anche sul mio. Nel futuro potrei essere una madre più assente in certi periodi, e preferirei che si sapesse che non è perché me ne frego delle mie nane. Parliamoci chiaro, 5 anni sono tanti. Se ci aggiungiamo anche Lilla, si parla di 7 anni in uno stesso istituto scolastico. Non sto qui a elaborare, non c’è niente di tragico, ma 7 anni sono veramente tanti per noi.
Insomma, ho pensato che avrei voluto parlarle e finalmente mi sono decisa, e ora sono 4 settimane che provo a incontrarla.
Stamattina finalmente siamo riuscite a vederci e sono appena tornata.
Per tutto quest’anno passato mi sono chiesta: troverò le parole giuste? la metterò in imbarazzo? farò la parte della madre pietosa? non starò interferendo troppo? non starò condannando Nina e Lilla a una protezione eccessiva?
Vedete, avevo paura di fare troppo. Ma, allo stesso tempo, sentivo e sento il dovere di fare di più di qualunque altra madre, di chiedere di più del giusto dovuto. Sarà che nel mio passato scolastico, dopo la morte di mio padre e i casini successivi, anche se non ne ero consapevole, è stato fondamentale incontrare insegnanti comprensivi, umani.
Sarà che mi sono convinta che chiedere aiuto sia un dovere quando ce n’è bisogno.
Ma ero comunque in ansia.
E invece, è stato molto semplice. La direttrice è stata comprensiva, molto sveglia, molto disponibile, anche molto rapida. Mi ha detto, "Ho capito tutto e mi sono scritta tutto, si fidi di noi, ci pensiamo noi alle sue figlie qui, lei pensi a curarsi meglio che può". 
Temevo che sarebbe stata una cosa difficile e penosa per me. Invece è stata giusta, semplice e commovente. E’ bello quando le persone ti sorprendono per la loro immediata disponibilità a capire. E’ raro. E ora mi sento un pochino più sicura e più leggera. Molto bene.

Tanto per…

Alla fine, oggi la pioggia ha vinto la mia pigra resistenza: potevo decidere se passare la giornata a dormire abbracciata a grigia o andarmene a cercare qualche libro, ché ormai ho quasi finito pure L’ombra del vento.
E così sono partita, da brava, e ho passato la mia orettaemezzo a  vagare tra gli scaffali per trovare quello che stavo cercando, che poi non sapevo minimamente cosa fosse. Come sempre sono andata a intuito, anche se ero piena di liste e raccomandazioni (grazie a tutti, prima o poi ci arriverò, è che io aspetto sempre che i libri mi "chiamino").
Alla fine, questo è quello con cui sono uscita:
Guillame Musso L’uomo che credeva di non avere più tempo;
Guillame Musso Chi ama torna sempre indietro;
Junot Diaz La breve favolosa vita di Oscar Wao (in inglese);
Randy Pausch L’ultima lezione (in inglese), se proprio volete andare fino in fondo, potete anche guardare il video qui, può far male, ma è bellissimo.
Se avete la sensazione che in queste letture ci sia un filo conduttore, beh, c’è.
Tanto per…