Una delle cose più interessanti della convivenza con una malattia seria è la deformazione del concetto di normalità. Se sei una persona minimamente sana dal punto di vista psicologico, i cambiamenti dovuti alla convivenza con terapie e cure invasive e permanenti entreranno a far parte della nuova normalità. Rifiutarli, o sentirli come altro da sé sarebbe sciocco e controproducente, visto che sono quelli che devono salvarti la pellaccia a fine giornata. La mia è una situazione di allarme perenne. Anche se, fortunatamente, ancora non mi impedisce di vivere una vita quasi normale. Non posso prendere il cancro e buttarlo. No, me lo devo curare. Tutto questo è entrato a far parte della mia normalità.
Come anche il fatto di passare più tempo in malattia che al lavoro, a 36 anni, assunta solo perché disabile. Come il fatto che dormo poco e con difficoltà perché sono in menopausa (e lo sono di nuovo, in meno di due anni) e le vampate mi trascinano, per non parlare del resto. E’ normale essere spesso stanca. E’ normale che non ho più nemmeno lontanamente voglia di fare l’amore. E’ normale che rinuncio facilmente alle uscite con gli amici, perché se poi non riposo abbastanza, il giorno dopo starò uno straccio e le mie energie devono essere conservate gelosamente, per curarmi e per stare con le mie figlie. E’ normale che abbia smesso di sentire tante persone perché la fatica di parlare con gli altri, con chi non vive a stretto contatto con te, è troppa. E così ho rinunciato a tanti legami sociali, divertenti, leggeri, sorridenti. E’ normale che abbia accettato la solitudine delle cure. Quando agli altri pazienti, amici o parenti arrivano con un cornetto in una bustina per l’amico/parente in chemioterapia, io tiro fuori il panino che mi sono preparata da casa. Lo mangio prima di addormentarmi, così quando tornerò a casa non avrò il problema di mangiare, potrò semplicemente andare a dormire e recuperare prima il tempo per stare in forma con Obi e le nane.
E’ questa la mia normalità. Non sapere dove andrò a vivere tra due mesi. Non sapere se posso pensare alle vacanze. Non poter pianificare un weekend fuori con più anticipo di due giorni. Non sapere se stasera la nausea mi tirerà per la giacchetta e sarò costretta ad andare a letto prima senza cena. Non sapere se Obi starà bene questo sabato, se possiamo invitare a cena qualcuno, o è meglio di no, perché magari sta di nuovo a pezzi. Non sapere perché nessuno mi chieda mai di accompagnarmi, di farmi compagnia, di venire a trovarmi nelle lunghe ore d’ospedale, tanto che ho imparato subito a considerare l’ospedale una piccola famiglia così da sentirmi meno abbandonata. Non sapere niente e vivere con grande entusiasmo tutto quello che riesco. Divertendomi anche tanto.
La rapidità con cui si accetta questa nuova normalità dipende in larga misura dall’età, o almeno questo mi sembra dire l’esperienza fatta fino ad ora. Ovvero, paradossalmente, più si è giovani, cioè più si ha da rinunciare, più si accetta a testa china il nuovo stato di cose. L’unica differenza è che la testa non è china in rassegnazione, ma come un ariete, pronta ad affrontare tutto, con discreto coraggio. Mi dispiace per loro, ma le persone anziane questo coraggio non ce l’hanno. Problemi loro. Loro hanno avuto la vita.
Ma c’è una cosa.
La rapidità con cui io ho imparato a convivere con questa nuova normalità (una normalità che comunque è cambiata ogni 3/6 mesi al massimo), non significa, non significa in nessun momento e in nessuna occasione, che io avrei voluto che la mia vita fosse proprio così a 36 anni.
E questo sono un paio di giorni che avevo proprio voglia di scriverlo. Così come memento.
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Ci siamo
I medici milanesi e quelli romani si sono confrontati, le tette incriminate sono state palpate, l’aumento di peso x l’altezza è stato segnato, e, infine, i calcoli sono pronti: giovedi prossimo si riparte con la brava vecchia chemio rossa e tiriamo giù la zazzera che si era finalmente stabilizzata.
Vaglielo a spiegare alle nane che avevano appena ripreso a disegnarmi con tanto di capelli…
Sono passati due anni, e anche se nel frattempo non ho mai smesso di curarmi, la "rossa" è la prima chemio, quella che non si scorda mai, quella che tap tap tap, ogni settimana, due volte a settimana, ti rimette in ginocchio, ti fa andare in circolo neri pensieri e fa dei vecchi logorroici i tuoi compagni di poltrona. Quella che ti devasta le vene, ti lascia un senso di schifo e disgusto intorno alla bocca. Quella che ti lega a doppio filo al senso della malattia perché nell’immaginario collettivo E’ la cura al cancro per eccellenza.
Sono passati due anni, ma mi sembra ieri. Epperò qualcosa è cambiato, e cioè:
a) ho, come dire, accantonato l’idea di potermi prendere delle pause significative dalle cure. Cioè so, per esperienza, che a questa cura ne seguiranno altre e che le mie energie vanno centellinate e orientate per una resistenza migliore nel tempo;
b) non lavoro più a za;
c) non devo dimostrare a nessuno che vivo una vita normale ed è tutto uguale a prima. semmai il contrario, comincio a sentire la necessità che gli altri si accorgano che quella che facciamo non è affatto una vita normale;
d) le mie nane sono più grandi, sempre fragili, ma anche più forti, solide eppure più consapevoli;
e) sono veramente stanca, resisto, per carità, ma comincio a sentire la fatica della lunga distanza;
f) ho voi da tediare a morte con i miei lamenti ogni qual volta se ne renda necessario.
A fronte di tutto questo, stavolta ho intenzione di fare delle cure la mia priorità assoluta, la mia professione, il mio primo impegno quotidiano, come non ho fatto mai fino ad oggi.
Ho intenzione di salvarmi la vita e di farlo nel modo più godereccio possibile.
E mi riprometto pertanto di:
1) mettermi in malattia a partire dalla prima somministrazione, così potrò riposare, rinfrancare lo spirito con buone letture e occuparmi delle nane con il minimo stress possibile;
2) prendere l’aloe tutti i giorni e assumere le vitamine necessarie con regolarità senza stare lì a risparmiare quattro lire o l’attenzione per queste cose;
3) occuparmi di quello che mangio in maniera più sana, proprio come scriveva camden, cosa che negli ultimi mesi ho fatto pochissimo (e si vede). Il mio corpo si merita di essere nutrito con attenzione e io mi merito di non cercare consolazioni in enormi mucchi di cioccolata (o almeno, facciamo che siano dei mucchietti);
4) cercare di praticare anche solo un minimo di esercizio fisico con regolarità per mandare meglio in circolo i farmaci e allo stesso tempo disintossicarmi con più facilità;
5) evitare di fare amicizia con vecchi depressi e vecchiette logorroiche in ospedale;
6) insegnare al mio corpo ad accogliere i farmaci con pazienza e tolleranza, e alle vene a restare morbide e aperte, per portare il farmaco là dove ce n’è bisogno;
7) chiedere aiuto ogni volta che ne avrò bisogno, senza farmi scrupoli inutili;
8) difendere le nane da ogni paura, ma parlare apertamente con loro della malattia quando sarà necessario farlo. questo lo facevo anche prima, ma adesso ne ho quattro di orecchiette curiose che mi fisseranno dal basso della loro implacabile nanità!
Ecco. Sono pronta a partire. Anzi non vedo l’ora. Come sempre il momento di pausa tra i controlli e l’inizio della terapia è quello più tosto. Ma ora ho voglia di comiciare a curarmi, di fare sul serio.
Provate a fermarmi, adesso!
Addii
A conclusione di questa simpatica settimana, da oggi sono ufficialmente, definitivamente e soffertamente uscita dal magico mondo di za.
Vorrei saper parlare di questa cosa in modo più ironico, ma proprio non mi viene.
Per prepararmi a questa giornata sono almeno 3 mattine che tento sessioni selvagge di shopping terapeutico. Ma ogni volta torno a casa con le sporte vuote e il cuore gonfio.
Vorrei immaginare che quello che comincerà la prossima settimana sarà un periodo lavorativo altrettanto felice, folle e divertente, ma anche questo proprio non mi riesce.
Vorrei pensare che le mio priorità sono ben altre che il lavoro. Ma finché sono stata dentro za non è stato così e sarà dura cambiare carattere adesso, anche se dovrò farlo.
A za ci lascio le cose più belle che ho fatto, e le persone migliori che ho conosciuto negli ultimi anni. E mi mancherà per sempre.
Come minimo, però, una delle settimane peggiori dell’anno già me la sono quasi lasciata alle spalle. E considerato che siamo solo al 15 gennaio, possiamo dire che mi sono portata avanti con il lavoro…
Adesso però vediamo di migliorare, che ne dite?
Per il momento lasciamoci così.
Concentrazione
Il titolo del post è riferito alla concentrazione di cose che mettono l’ansia.
Passi per il fatto che a Natale ho duemila persone a pranzo e non ho intenzione di concentrarmi sul menu prima del 24 verso le 17. Questo non mi mette ansia per niente. No.
Poi questa settimana Obi è fuori quasi tutto il tempo e io dovrò lavorare tantissimo. Ma passi. Mi sono abbastanza organizzata con la babylalla. Mi mette l’ansia non farcela fisicamente, ma psicologicamente, sono anche contenta di sbattermi un po’.
Passi pure il fatto che forse mercoledì decideranno se devo cambiare lavoro tra 15 giorni. Ecco questo mi ansiotizza abbastanza. Vorrebbe dire lasciare il magico mondo di za, ma visto che è un anno che si prospetta questa eventualità, senza che poi si concretizzi, mi preoccuperò da giovedì in poi.
La cosa che invece mi paralizza lo stomaco e mi ottenebra il cervello è che mi chiama mia madre, e parlando, tra una cosa e l’altra, mi butta là un: "Sai che dovrei fare una TAC perché il medico ha visto qualcosa, che non capisce bene cosa sia. Probabilmente non è niente, ma mi ha detto che devo fare la TAC."
"Ah. Ok."
Silenzio mio.
"Ti serve che passo in questi giorni?", mi fa.
Pausa. Poi: "Ah, in effetti martedi pomeriggio potrei aver bisogno di un aiuto".
"Ok, allora a martedì, vengo quando vai a prendere le bambine".
Silenzio mio.
"OK", dico.
Mia madre deve fare una TAC, il mio mondo è temporaneamente paralizzato dall’ansia.
Ora gliela prenoto.
Ma, sinceramente, non so se riesco a reggerla questa cosa.
Bene così
Il cambiamento tanto temuto alla fine non è avvenuto e non avverrà per un bel po’. Semmai dovesse veramente avverarsi poi. Non ci credo mica.
Ad ogni modo sono un po’ stranita, ma tutto sommato sollevata. Posso restarmene seduta con una bella copertina sulle gambette a mangiare pizza con le patate e litigare con Lulli. Sono piccole certezze di cui ho bisogno.
E poi è da lì che viene tutta la mia creatività.
Bene così.
Il mio vicino Totoro
Pensate che la prima volta che ho visto questo film era il ’97. In quel periodo stavo insieme ad un pazzo squilibrato che mi portò a vedere questo capolavoro in giapponese in un qualche pulciosa sala cinema vicino all’università. Lo squilibrato l’ho poi perso di vista, per fortuna, visto che aveva preso ad ansimarmi al telefono. Miyazaki invece no. E’ stato anche il mio primo fortunato evento a za, l’anteprima della Città Incantata, un’altra meraviglia.
Sabato siamo andati a vederci Totoro, recuperato e in italiano…è un film semplicissimo, ma pieno di una vasta meraviglia del mondo che commuove profondamente.
La trama per me e Obi era di per sé molto commovente: due bambine piccole che con il papà si trasferiscono in una casa di campagna per stare vicino alla mamma ricoverata in ospedale e che poi, nella natura della campagna rurale giapponese di qualche anno fa, incontrano una banda di amici (immaginari?)pelosetti che si chiamano Totoro. Ma la trama non esaurisce quella capacità di cogliere il mondo bambino, meraviglioso, oscuro, stupito. Dei bambini e degli adulti che li crescono.
E’ un film bellissimo, di una rara poesia, ve lo consiglio tanto.
A me ha ridato stabilità, visione, mi ha ricordato quale è il mio centro.
Fermi tutti
La vita dovrebbe fermarsi delle volte. Negli ultimi due anni invece sembra essere addirittura corsa via più veloce. Ma se uno avesse almeno un punto fisso, si sentirebbe meno in balia dei venti, delle onde. Oppure è meglio così.
Oggi ho ricevuto una notizia che forse non si rivelerà vera fino in fondo, ma se invece così non fosse, se davvero fosse vera, tra meno di un mese la mia vita dovrebbe affrontare un grosso cambiamento, uno dei più dolorosi degli ultimi anni, tanto più doloroso, perché come sempre, dovrei anche esserne grata.
E questo quando tra due settimane mi aspetta il solito round trimestrale di controlli. E allora mi sento soffocare. Vorrei appoggiarmi a una qualche roccia e avere il potere di fermare questa sensazione di nausea che per una volta non è dovuta alla chemio, ma ad altro. Vorrei trovare una poesia che spiega questa sensazione, ma non sono in grado, tutte sembrano invitarmi al viaggio, al cambiamento.
Eppure per una volta vorrei fermarmi un attimo, così come sono, come siamo. E così come potremmo essere.
Diagnosi
Giusto per alzare il tiro dell’allegria di questo blog, ora vi racconto come ho scoperto il mio simpatico cancro duttale infiltrante metastatico g3.
Ero tornata dalle ferie più brutte della mia vita, giurando e spergiurando non mi sarei mai più messa in condizione di passare le uniche settimane di ferie da mia suocera, proprio l’estate che la mia “perfetta cognata” si era messa a dieta e io invece ero nella peggiore forma fisica di sempre ed era un continuo confronto in spiaggia.
Mai più.
Felice di tornare in ufficio, a riprova del fatto che era proprio stata un’estate di merda, sento un dolore strano al seno destro. Un dolore che mi allarma immediatamente. Perché anche se ho smesso di allattare da meno di 6 mesi, non si tratta di un fastidio di assestamento post allattamento, questo è un fastidio diverso. A riprova che mi allarmo, ci sono le testimonianze di tutte le mie amiche e colleghe a cui chiedo un indirizzo di un medico per farmi visitare e ne parlo pure a grande capo, tanto sono preoccupata.
Poi è il triste 11 settembre 2007, e ci succedono un sacco di casini, tutto passa in secondo piano. Riesco a farmi visitare solo il 2 ottobre. Sono sicura della data perché il ginecologo era di studio vicino a una statua di Gandhi e cercando parcheggio vidi delle magiche donne in sari che vi posavano ghirlande di fiori.
La visita fu tutta dedicata al mio seno. Il medico disse che non c’era assolutamente niente di cui preoccuparsi, era tutto normale.
Altri casini, un sacco di viaggi all’estero per lavoro tra ottobre e novembre.
A metà novembre il seno destro si colora di uno strano eritema rossastro intorno al capezzolo.
Voglio farmi rivedere.
Non torno da quel primo medico, non mi fido. E pure con tutte le remore che ho a chiedere aiuto a Obi (che tra le altre 6 milioni di cose, lavora di fatto in un ospedale), chiedo a lui di farmi visitare dal ginecologo che ha fatto nascere Lilla.
Mi chiedono se è proprio urgente, se non può aspettare. Mi impunto (io non mi impunto mai per me stessa) e riesco a farmi visitare di sabato. Il ginecologo mi dice che è solo un problema dermatologico, mi segna una crema che non comprerò mai. E mi dice, “Guarda non è proprio niente, ma se proprio sei in ansia, semmai scendi un attimo e ti facciamo un’ecografia al volo”.
Io scendo.
Aspetto quieta quieta, sentendomi come sempre in colpa di richiedere attenzioni per me stessa, ma non voglio trascurare niente.
L’ecografista di turno è una stronza bionda sottopeso che comincia a gridarmi in faccia “io non faccio passare i raccomandati”. Mortificata me ne vado. Obi si infuria, ma io mi sento troppo umiliata e giuro a me stessa che non sono convinta, che farò l’eco aprivatamente appena finisce il festival.
Si, perché in tutto questo stiamo facendo l’edizione più faticosa e sfigata del nostro festival più importante. Quello che doveva fare Lulli e che non può fare perché è lontano dietro a una vera tragedia personale che non farà altro che peggiorare.
Durante il festival il seno comincia a sanguinare, me ne accorgo dalle macchie sui vestiti. Io che non mi guardo mai.
Come finisce il festival vado a fare un’eco privatamente.
Sono passati altri 15 giorni ed è il 5 dicembre 2007. Avevo passato la mattina a litigare con Obi su come poter aiutare Lulli, avevo portato Lilla a fare un vaccino, piangendo sommessamente dallo stress e dalla fatica accumulata.
L’ecografista è libanese e molto gentile, scambiamo qualche parola, poi lui comincia l’eco e subito mi dice che vede qualcosa di preoccupante e che devo ricoverarmi al più presto.
Può sembrare paradossale, ma da quel momento mi rassereno. E da lì comincia tutto il turbinio degli esami che confermano e peggiorano la diagnosi.
Ma io sono tranquilla.
Comincio la chemio il 22 dicembre, e dopo il trattamento il Mr. Clint mi invita al pranzo natalizio per medici e infermieri. Pranziamo insieme, mi faccio un bicchiere di vino, ridono tutti al dh, sono tutte brave persone, la mia nuova famiglia.
Niente mi spaventa, ed essere pronti è tutto.
Non ce l’ho con nessuno per il ritardo sulla diagnosi. Giusto con quella stronza bionda ecografista che da allora evito come la peste. Ma se qualcuno mi dice che mi sono beccata le metastasi ai polmoni perché ho trascurato il problema, lo prendo a testate. Molto semplicemente.
10 minuti
Tra dieci minuti chiudo l’ufficio e sono in vacanza. Ed è bello. Sono circondata dal silenzio dentro e dalle cicale fuori, ed è bello. So che domani, o al massimo dopodomani, a quest’ora potrò riposare sotte le foglie degli alberi che amo, l’immagine che al mondo mi rilassa di più. Dopo la faccetta di Nina e Lilla che dormono, si intende.
Tra dieci minuti ricomincia l’estate ed è diversa dall’estate di appena un mese fa, quella prima del reset da controlli. Ma non per questo sarà meno bella.
Non so se riuscirò a scrivere, cioè, non so se lo vorrò. Spero di rilassarmi e di riposarmi tanto, ne ho bisogno, mi attende un altro anno tosto e devo stare in gran forma, voglio bene a questo mio corpo, deve tenere, deve essere forte, deve riempirsi di verde e di azzurro e di risatine animate delle mie bimbe.
Spero che possiate tutti andare un po’ in vacanza, e che siano vacanze piene e buone.
In questi mesi siete stati una risorsa impagabile per me, dovete stare in forma anche voi, sennò poi come faccio?
Mi raccomando!
Cancer Free Day
Ieri silenzio, oggi giornata cancer free. Ieri avevo stilato questo programmino per oggi:
Accompagnare le nane al centro estivo nella scuola a 5 stelle di mia sorella. Già fatto e accompagnato da un caffè + sosta al baretto rockettaro dietro l’ufficio dove ho comprato il greatest hits di Springsteen per disfarmi delle mie cupe elucubrazioni di cui sopra e che ho messo ora a palla per tutto l’ufficio.
Venire pigramente a lavorare e farlo, ma senza stress. Appunto. Con la musica a palla, Lulli mi caccia tra 5 minuti sicuro.
Riandare a prendere le nane e portarle a nuoto.
Portare le nane a casa, far mangiare loro tutte quelle schifezze che gli piacciono davanti alla tv (per una volta) così si lobotomizzano e ci mettono 4 secondi invece delle solite due ore di discussione
Mollare le nane alla baby.
Partirmene con Obi verso il cinema.
Separarci per vedere io Harry Potter, lui Uomini che Odiano le Donne, preventivamente zavorrati di enormi pacchi di pop corn.
Dopo il film, farci una bella pinta insieme. Anzi meglio di no, sennò cominciamo a parlare, meglio di no, stasera.
Tornare a casa e DOR-MI-RE
e poi domani si vedrà.
Comunque, sono di ottimo umore oggi!